Senza soldi, lavoro e futuro: è l’Italia di oggi

Pubblicato il da borsaforextradingfinanza

http://www.rinascita.eu/mktumb640a.php?image=1373559775.jpgLa questione retributiva, il lavoro, la disoccupazione, le pensioni rappresentano questioni molto complesse e di scottante attualità nel nostro Paese per le numerose difficoltà che attraversano da più di un decennio le maestranze alle prese con i continui cambiamenti decisi in questi settori ai loro danni.

Un’analisi della situazione che affligge l’Italia e i suoi cittadini a riguardo è stata compiuta di recente in un libro dal titolo quanto mai emblematico Senza soldi. Sottopagati, disoccupati, precari, pubblicato da Walter Passerini, giornalista professionista, e da Mario Vavassori, docente e fondatore della società Od&M-GiGroup, edito per i tipi di Chiarelettere.

Ma partiamo subito dall’analisi del volume che ci dà uno spaccato molto interessante e allo stesso tempo preoccupante della miseria in cui vivono molti dipendenti sottopagati e precari, fino agli stessi disoccupati il cui numero cresce di giorno in giorno.

Basta sfogliare i titoli di molti quotidiani per capirne l’importanza e la portata della crisi del lavoro e degli stipendi da fame che ricevono oggi i dipendenti di tutte le società attive in Italia.

Nel 2011 la ricchezza netta si è ridotta del 3,4 per cento. Alla fine dell’anno, la ricchezza abitativa delle famiglie italiane era stimata intorno ai 5.000 miliardi di euro. Sempre alla fine del 2011, la ricchezza netta delle famiglie italiane era di quasi 9.000 miliardi (8.619 miliardi di euro), corrispondenti a poco più di 140.000 euro pro capite e 350.000 euro in media per famiglia. Le attività reali rappresentavano il 62,8 per cento del totale delle attività, le attività finanziarie il 37,2 per cento. Al di là della distribuzione e della concentrazione della ricchezza, in Italia emerge il fatto che le famiglie hanno un’elevata ricchezza netta, equivalente nel 2010 a 8 volte il reddito disponibile. Questo dato si confronta con l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone, il 5,5 del Canada e il 5,3 degli Stati Uniti. A questa ricchezza si aggiunge un basso indebitamento, che equivale al 71 per cento del reddito disponibile (in Francia e in Germania è di circa il 100 per cento, negli Stati Uniti e in Giappone del 125 per cento, in Canada del 150 per cento e nel Regno Unito del 165 per cento). Totalmente in rosso risulta il 2,8 per cento delle famiglie italiane, per le quali le difficoltà finanziarie non sono compensate nemmeno dal possesso dell’abitazione. La ricchezza disponibile, quindi, è elevata, ma ciò non può tranquillizzarci, perché la sua distribuzione è totalmente diseguale e caratterizzata da una profonda sperequazione.

E mentre i nababbi se la godono anche in Italia come altrove, Bankitalia lancia l’allarme, in cui sottolinea che a due famiglie su tre il reddito non basta. Per cui il 65 per cento delle famiglie italiane ritiene di non avere risorse sufficienti. Il disagio penalizza pesantemente i giovani e chi è in affitto.

Avere un lavoro in realtà non risolve il rischio di essere o diventare indigenti. E ancora più grave è se il posto di lavoro è precario, ciò equivale ad avere un salario ancora più basso, pari a circa il 28 per cento in meno di chi ha un posto a tempo indeterminato. Tutto ciò è stato ampiamente documentato dall’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (Isfol), che snocciolando dati ha sottolineato come un lavoratore a tempo determinato non riesce a superare i 1.000 euro al mese, indipendentemente dall’età. Se il salario medio dei lavoratori temporanei resta sotto i 1.000 euro, la paga media dei dipendenti con il posto fisso oscilla dai 900 euro dei giovani tra i 15 e i 24 anni ai 1.500 euro degli adulti tra i 55 e i 64 anni. Il salario medio dei dipendenti a tempo determinato nel 2011 è di 945 euro; quello degli occupati a tempo indeterminato è di 1.313 euro. In Europa 116 milioni di persone sono a rischio povertà. L’allarme, confermato anche dall’Ocse, proviene direttamente dalla Commissione europea, che ha sottolineato come quasi il 94 per cento dei lavori creati nel 2011 sono part-time e il 42,5 per cento dei giovani ha contratti a tempo determinato. Il precariato colpisce soprattutto i giovani, ha precisato l’Ocse. Al di là delle diverse culture del lavoro e delle differenti concezioni del denaro, oggi il rapporto con i soldi, con gli stipendi, con le retribuzioni è cambiato. Si è rotto il binomio lavoro-sicurezza, perché si può essere poveri e si diventa sempre più insicuri pur avendo un lavoro. Si è inceppato il binomio virtuoso studio-stipendio perché, pur avendo una laurea, non è detto che si abbia anche una retribuzione degna di questo nome. Insomma, è come se alla riduzione del valore reale degli stipendi, come è successo in questi ultimi vent’anni, si accompagni inestricabilmente la riduzione del valore dello stesso lavoro, e viceversa: alla fine, il lavoro è pagato poco perché vale sempre meno. La questione salariale non è un argomento marginale anche per un altro problema: l’appiattimento e la svalutazione delle retribuzioni e la distanza siderale in aumento tra chi guadagna molto e chi non ce la fa più ad arrivare alla fine del mese. C’è una quantità crescente di lavori, mestieri e professioni che vengono pagati pochissimo. È entrato ormai nel linguaggio comune una nuova espressione: quelli che non arrivano alla terza o alla quarta settimana, a indicare coloro che non ce la fanno a mettere insieme il pranzo con la cena per i problemi economici che debbono affrontare mensilmente a causa di uno stipendio da fame. La soglia dei 1.000 euro al mese per molti è addirittura un sogno, un miraggio, anche da parte di giovani che hanno un elevato titolo di studio. Ci sono mestieri ad altissima utilità sociale che sono drammaticamente sottopagati e si ritrovano nella parte bassa della classifica sul piano professionale. Basta guardare, ad esempio, agli infermieri, molto ricercati e spesso difficili da trovare, utili socialmente, impegnati in un lavoro faticoso e sottopagato; per non parlare degli insegnanti: del loro declino professionale nell’immaginario sociale le cronache ci parlano tutti i giorni. Senza dimenticare il prestigio: ci sono mestieri, spesso manuali, di difficoltoso reperimento, che non tutti se la sentono più di fare, perché ritenuti a bassa attrattiva sociale. Uno per tutti, quello di mungitore, oppure quello di panettiere, figure e mestieri difficili da trovare, che vengono praticati ormai solo da stranieri. E potremmo continuare. L’unico obiettivo che ci piacerebbe raggiungere, con questo libro, è accendere un riflettore sulla questione salariale, croce, delizia e metafora del lento declino del valore del lavoro e dell’inesorabile declino del nostro paese verso ampie aree di esclusione sociale e nuove povertà.

È quindi evidente da quanto emerge dalle statistiche che un italiano su tre oggi è a rischio povertà. Nel 2011 era il 28,4 per cento della popolazione del BelPaese.

In Italia da un po’ di tempo a questa parte cresce soprattutto la quota di persone a rischio di povertà per il calo del reddito (dal 18,2% al 19,6) e quella di coloro che soffrono di grave deprivazione materiale (dal 6,9% all’11,1). Stabile (10,5%) sembrerebbe la quota di persone che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro, che però è destinata a crescere, vista la situazione difficile del mercato del lavoro. Il rischio di esclusione sociale del nostro Paese è più alto di quello medio europeo (28,4% rispetto al 24,2%), soprattutto per grave deprivazione materiale (11,1& contro una media dell’8,8) e per quella del rischio di povertà (19,6% contro il 16,9). E poi l’Italia sarebbe la sesta o la settima potenza mondiale? Forse grazie a quello che un tempo era l’industria ormai definitivamente svenduta e privatizzata, non rimane altro che un magro salario e un misero lavoro, e forse nemmeno quello.

Le persone soggette a grave deprivazione materiale, secondo l’Istat, vivono in nuclei familiari che soffrono di almeno quattro dei seguenti sintomi di disagio: non poter sostenere spese impreviste; non potersi permettere una settimana di ferie; avere arretrati per il mutuo, l’affitto, le bollette o per altri debiti; non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni; non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione e, inoltre, non potersi permettere una lavatrice, la tv a colori, il telefono o l’automobile. Queste sono le fredde definizioni delle statistiche. L’Istat ci dice che aumentano gli individui che vivono in famiglie che dichiarano di non potersi permettere, nell’anno, una settimana di ferie lontano da casa (46,6%), che non hanno potuto riscaldare adeguatamente l’abitazione (17,9%), che non riescono a sostenere spese impreviste di 800 euro (38,5%) o che non si possono permettere un pasto proteico adeguato ogni due giorni (12,3%). Inutile dire che una persona su cinque nel nostro Sud è gravemente deprivata, il doppio rispetto al Centro e il triplo rispetto al Nord. Le famiglie più esposte al rischio sono quelle numerose e con un basso numero di persone che lavorano. Sono in forte disagio quelle monoreddito, come gli anziani soli e i genitori single, e quelle con tre o più figli minori. Il 50% delle famiglie italiane ha percepito, nel 2010, un reddito netto inferiore a 24.444 euro l’anno (circa 2.037 al mese). Nel Sud e nelle Isole una famiglia su due percepisce meno di 19.982 euro (circa 1.665 euro mensili). E si tratta di medie statistiche. Sempre secondo l’Istat, il 20% più ricco delle famiglie italiane detiene il 37,4 per cento del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta solo l’8 per cento del reddito totale. E le disuguaglianze tendono a crescere. Secondo la Banca d’Italia, la situazione è ancora più grave. La crisi sembra aver riportato indietro nel tempo la distribuzione della ricchezza delle famiglie italiane: quasi il 50 per cento della ricchezza totale è infatti detenuto dal 10% delle persone più ricche. E con la crisi le disuguaglianze crescono e aumenta il divario tra benestanti e non abbienti, e in molti sono costretti a ridurre drasticamente il proprio tenore di vita.

Il circolo vizioso in cui siamo finiti ha delle precise responsabilità. Dobbiamo infatti ringraziare chi ci ha portati ad avere uno dei debiti pubblici più elevati del mondo se, anziché possedere l’agilità della gazzella, restiamo zavorrati a terra come un elefante. Il rapporto debito-Pil va quindi attaccato e rimosso agendo soprattutto sulla crescita: solo con la ripresa della produzione e della ricchezza sarà possibile tenere a bada il debito, per poi arrivare progressivamente a ridurlo.

Sono diverse le linee di azione su cui la politica e le aziende dovranno muoversi. La prima è quella di ridare valore al lavoro. Per troppi mestieri la soglia dei 1.000 euro al mese è diventata un sogno e una maledizione. Parliamo della precarietà, ma anche dei lavori esecutivi più semplici, degli operai, dei manovali, delle commesse, che rappresentano l’area del lavoro meno pagato, dentro la quale ormai sono finite anche molte professioni a elevato contenuto intellettuale, ma sottopagate e precarie.

Liberare risorse per avere salari netti più elevati è un’altra battaglia di civiltà non più rinviabile. È questa una delle sfide più importanti da vincere. I salari e gli stipendi sono a loro volta soffocati da oneri eccessivi, sia fiscali che contributivi. La differenza tra stipendio lordo e stipendio netto ci colloca ai primi posti al mondo nella classifica del cosiddetto cuneo fiscale. La terza sfida è quella del merito e della produttività. Si sono spese troppe parole e pochissimi fatti su questi due temi. È necessario arrivare a forme di riconoscimento dei risultati della prestazione lavorativa sia individuale che di gruppo, per dare più trasparenza e per togliere discrezionalità e arbitrio alle politiche retributive. È necessario collegare una quota significativa di retribuzione alla performance e alla produttività individuale e aziendale. Le erogazioni a pioggia e gli una tantum unilaterali possono anche essere accolti con piacere dai percettori di buste paga asfittiche e appiattite, ma oggi servono politiche finalizzate a stimolare le prestazioni e la dinamica salariale, per ridare un po’ di ossigeno alle persone, alle famiglie, alle imprese e ai consumi. Ma tutte queste sfide non saranno possibili senza un nuovo sistema di relazioni industriali e l’arricchimento e l’articolazione dei livelli contrattuali. Lasciando da parte facili, quanto inutili, demagogie, servono più partecipazione dei lavoratori ai destini del proprio lavoro e della propria impresa, anche attraverso forme di coinvolgimento dei dipendenti; più trasparenza nelle politiche aziendali, con percorsi di carriera finalizzati e chiari; più aderenza e attenzione alla realtà e alla struttura imprenditoriale italiana che, è sempre bene ricordare, è fatta per oltre il 90-95% di piccole e piccolissime imprese. In questo periodo particolarmente colpite dalla crisi economica ma soprattutto da un sistema fiscale che distrugge tutte le loro potenzialità.

È importante però sottolineare che i due autori del volume sottolineano come, al di là delle questioni contrattuali, delle misure economiche e delle relazioni industriali, sia più importante portare avanti subito una battaglia a favore del lavoro e della sua valorizzazione in tutte le sue forme e manifestazioni, riscoprendo alcuni valori del passato quando per i nostri progenitori era un fattore di dignità, di promozione e di coesione sociale, ma soprattutto – aggiungiamo noi – di rispetto per il bene superiore della Nazione. Le crisi si combattono grazie al contributo di tutti, dal lavoro manuale a quello intellettuale. Per questo il lavoro deve tornare al centro della discussione e delle priorità. E avrà più valore e sarà pagato meglio e adeguatamente solo se tornerà a essere il baricentro di una nuova crescita e di un nuovo sviluppo sociale in seno alle Nazioni europee.

Del resto la litania dei dipendenti per quel che riguarda l’insoddisfazione per la bassa retribuzione hanno valide ragioni di esistere. Anche perché le sorprese non mancano, soprattutto quando si scopre che nei vertici aziendali, si nascondono taluni soggetti che arrivano a guadagnare 10 o 20 volte di più rispetto ai propri collaboratori, arrivando addirittura a 300-400 volte.

In più emerge un altro dato che desta non soltanto preoccupazione ma soprattutto tristezza attraverso cui si scopre che i salari e gli stipendi sono fermi, bloccati e perdono costantemente terreno a causa dell’inflazione. Sono la spia della perdita di valore del fattore lavoro. E c’è di più, l’erosione degli stipendi è iniziata 20 anni fa, ma si è acuita fortemente negli ultimi dieci anni, laddove per gli stipendi è stata una vera e propria catastrofe.

Ma la crisi è iniziata da tempo e viene da lontano. Quaranta anni fa gli italiani erano poveri, ma nonostante tutto felici. Era questo il clima che perdurava e si respirava. C’era anche una sorta di ascensore sociale, che dava alla vita quotidiana il segno della speranza e della promozione, all’insegna di un miglioramento progressivo, che sembrava dovesse durare all’infinito e che alimentava la fiducia delle classi meno abbienti di poter cambiare in meglio la propria condizione.

Giunti al terzo millennio la situazione inizia a complicarsi e la vita quotidiana peggiora rapidamente. Già qualche anno prima, a partire dalla crisi della Prima Repubblica e del sistema dei partiti che sin lì avevano governato, con l’accordo tra governo, imprese e sindacati del luglio 1993 viene sottoscritto un patto sociale che darà vita a una lunga stagione di moderazione salariale, a cui avrebbe dovuto corrispondere uno scambio: niente aumenti di stipendio se non contenuti nell’ambito della cosiddetta inflazione programmata, in cambio di un aumento dell’occupazione e del mantenimento del potere d’acquisto dei salari. Tutto invece procedette in maniera diversa. Anzi, la compressione salariale e retributiva venne ulteriormente aggravata dal succedersi di crisi economiche e finanziarie e dalla progressiva integrazione europea, che avrebbe portato alla moneta unica. È proprio con il Trattato di Maastricht, entrato in vigore il 1° novembre 1993, che l’Unione europea divenne una realtà e che i problemi si aggravarono: dal 1° gennaio 1999 sarebbe nata la Banca centrale europea, insieme al sistema europeo delle banche centrali, che avrebbe creato e coordinato la politica monetaria unica. Seguirono due ulteriori tappe: una prima fase, in cui le monete nazionali avrebbero continuato a circolare, pur essendo legate irrevocabilmente a tassi fissi, insieme alla futura nascente moneta unica, l’euro; una seconda, in cui le monete nazionali avrebbero dovuto lasciare definitivamente il posto alla moneta unica. Per completare l’integrazione, ciascun Paese avrebbe a sua volta dovuto rigorosamente osservare e seguire alcuni parametri ben precisi, ovvero un rapporto tra deficit pubblico e Pil non superiore al 3 per cento; e ancora un rapporto tra debito pubblico e Pil non superiore al 60 per cento (Belgio e Italia, in realtà, ne furono esentati); infine un tasso d’inflazione non superiore all’1,5 per cento rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi. Da qui iniziarono i problemi e i mali si può affermare con certezza che ebbero origine da questo accordo sottoscritto dagli Stati membri Ue.

Il decennio 2002-2012 ha registrato senza alcun dubbio il fallimento delle politiche salariali e retributive, e non ha realizzato delle vere pratiche di meritocrazia. L’unico risultato evidente, sebbene non ancora diventato elemento di consapevolezza e di reazione sociale e politica, è quello di un livellamento dei compensi, di una riduzione dei margini di dinamismo delle retribuzioni variabili, di una ripresa di politiche aziendali non trasparenti e di breve respiro, fortemente discrezionali e, soprattutto, di una perdita netta del potere d’acquisto. E questo slittamento ha investito tutti: operai, impiegati, quadri, dirigenti, lavoratori con il posto fisso e lavoratori precari. Se analizziamo i dati sugli ultimi dieci anni di retribuzioni in Italia, ciò che appare evidente è quello di una crescita fittizia. Ovviamente, sul piano nominale, tutti sono cresciuti. Ottenuto 100 nel 2002, gli operai sono cresciuti nel 2011 fino ad arrivare al 122,2, mentre nel 2012 al 124,4. Gli impiegati al 119,2 nel 2011, al 123,6 nel 2012. I quadri al 129 nel 2011 e al 128,7 nel 2012; i dirigenti al 118,1 nel 2011 e al 121,3 nel 2012. Sembrerebbe una crescita esponenziale, ma così non è assolutamente. Se verifichiamo i valori reali e rapportiamo i valori nominali con l’andamento dell’inflazione, la crescita diventa un salasso, e il salasso colpisce tutti. Usando infatti l’indicatore dell’inflazione ufficiale, i prezzi al consumo sono cresciuti al 124,5 nello stesso periodo (2002-2012). Da cui si evince che solo i quadri si sono in parte salvati. Ma se prendiamo invece il dato più realistico, e cioè quello dei prezzi al consumo dei beni ad alta frequenza d’acquisto, che sono quelli che vengono comprati dalla stragrande maggioranza delle persone con il carrello della spesa, la tosatura diventa ancora più evidente: dal 2002 al 2012 questo indice sale al 133,1. Tutti colpiti, quindi, e senza la copertura del potere d’acquisto. Lo stesso succederebbe se adottassimo l’indice Ipca, l’indice europeo armonizzato, che non tiene più conto dell’inflazione programmata ma di quella prevedibile, a esclusione dei beni energetici; il che è tutto dire, dal momento che l’aumento del prezzo del petrolio si ripercuote automaticamente su tutti i beni e su tutti i prezzi e quindi riduce a sua volta il potere d’acquisto. E questo per quanto riguarda le retribuzioni lorde che, come ben si sa, subiscono poi un’ulteriore tosatura per tasse e contributi. Da qui sono partiti i vari tentativi di contenimento del costo del lavoro, di riduzione del cosiddetto cuneo fiscale (differenza tra salario lordo e salario netto in busta paga) e di agevolazione degli stipendi di produttività, sinora con scarsissimi effetti pratici. Anche le ipotesi di decentramento contrattuale e di revisione del peso dei contratti nazionali collettivi di lavoro non ha finora prodotto risultati significativi. Del resto la struttura del sistema industriale e delle imprese italiane vede il netto prevalere delle piccole e piccolissime imprese: se il 97% delle aziende è sotto la soglia dei 50 dipendenti, la contrattazione aziendale o di territorio rischia di essere una pia illusione, a favore del mantenimento della funzione centrale del contratto nazionale che, anche se tende ad appiattire e uniformare la realtà, riesce ancora a offrire tutele di base e miglioramenti che altrimenti sarebbero negati. La compressione salariale e l’appiattimento retributivo hanno inoltre fatto impietosamente emergere un altro fenomeno, assente nei periodi precedenti: il numero di quanti si ritrovano a essere poveri pur avendo un lavoro. La coincidenza virtuosa tra lavoro, stipendio e sicurezza sembra non reggere più. Visto il livello delle retribuzioni, la loro immobilità e l’avanzata del costo della vita, si è formato un nucleo forte dentro la classe lavoratrice, quello rappresentato dai cosiddetti working poor, i poveri che lavorano, anche con un contratto a tempo indeterminato. Se la maggioranza degli operai arriva a malapena a 1.200-1.300 euro netti a mese, il loro tenore di vita e il loro contributo ai consumi è davvero ridotto. Senza contare i compensi nelle diverse forme erogati ai cosiddetti precari, ai Co.co.co, ai lavoratori a termine e a progetto, che in molti casi non riescono a superare i 1.000 euro al mese. È da qui che si è messa in moto una demotivazione al lavoro, ritenuto un investimento che non vale più la pena di fare. È da qui che deve partire, invece, una nuova politica retributiva in Italia, legandola al tema del potere d’acquisto, della produttività, del merito e della partecipazione.

Se il problema è grave e rischia di andare fuori controllo per chi lavora, non si può non riconoscere la situazione forse ancora più grave di chi al lavoro non è più perché è andato in pensione. Le pensioni pubbliche sono troppo basse, e questo clima rende la vecchiaia molto preoccupante per gli italiani. Già oggi la previdenza pubblica è fatta di pensioni modeste. Secondo l’indagine Censis-Covip, emerge che degli 11,6 milioni di pensionati con pensione di vecchiaia, più di 4 milioni (oltre il 35%) beneficia di un assegno pensionistico inferiore a 1.000 euro. Di questi, 741.000 (il 6,4%) ricevono meno di 500 euro al mese. E il futuro non sarà più roseo. I lavoratori italiani pensano che quando andranno in pensione riceveranno un assegno pari in media al 55% del proprio reddito attuale. Un quarto dei lavoratori crede che avrà una pensione inferiore al 50% del reddito da lavoro e il 43% che al massimo essa sarà compresa tra il 50% e il 60% del reddito. In particolare, i dipendenti pubblici si aspettano una pensione pari al 62% del loro reddito, i dipendenti privati pari al 55% e gli autonomi al 51%. I giovani di 18-34 anni prevedono che avranno una pensione pari al 54% del reddito e i più anziani pari al 60%. Secondo l’opinione del 46 per cento degli attuali occupati si va incontro a una vecchiaia di ristrettezze, senza grandi risorse da spendere: il 24,5% ritiene che non potrà vivere nell’agiatezza, anche se qualche sfizio potrà toglierselo; il 21,5% afferma che la situazione è molto incerta e non riesce a immaginare come sarà la propria vecchiaia. Solo l’8 per cento pensa che potrà godersi un po’ di serenità anche grazie a buoni redditi.

Ma c’è di più. Al crescere dell’esigenza di integrare la propria magra pensione non crescono né le opportunità né le possibilità di farlo: non ci sono soldi per poterlo fare. “La stessa previdenza complementare, così poco conosciuta – continua la ricerca Censis-Covip – non suscita tra i lavoratori la fiducia necessaria a far sì che vi investano i loro risparmi. Tra i motivi della scelta di non aderire alla previdenza complementare, al primo posto emergono quelli economici: il 41 per cento dichiara di non poterselo permettere; il 28 per cento non si fida degli strumenti di previdenza complementare; il 19 per cento si ritiene troppo giovane per pensare alla pensione; il 9 per cento preferisce lasciare il Tfr in azienda”. Insomma, si è instaurato un vero e proprio circolo vizioso tra bassi salari e stipendi, bassa capacità di risparmio, basse pensioni e scarsa o nulla possibilità di integrarle. Così, dopo essere stati poveri pur avendo un lavoro, si prospetta per molti il destino di trovarsi in povertà pur avendo una pensione. Una realtà insopprimibile che lascia l’amaro in bocca soprattutto in coloro che hanno sempre cercato di lavorare e di crearsi un futuro degno di questo nome. Ma che purtroppo gli stipendi e il periodo sempre più breve di lavoro rende impossibile la realizzazione.

Secondo la Banca d’Italia, la crisi ha riportato indietro nel tempo la distribuzione della ricchezza degli italiani: quasi il 50% della ricchezza totale è detenuto dal 10% più ricco. Dai dati emerge infatti come la distribuzione della ricchezza sia segnata da un elevato grado di concentrazione: la metà più povera delle famiglie italiane detiene il 9,4% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco ha il 45,9% della ricchezza complessiva. Ma c’è di più: il cosiddetto indice di Gini, che serve a misurare il grado di disuguaglianza, risulta in netto aumento. Nel 2011 la ricchezza netta si è ridotta del 3,4%. Alla fine dell’anno, la ricchezza abitativa delle famiglie italiane era stimata intorno ai 5.000 miliardi di euro. Sempre alla fine del 2011, la ricchezza netta delle famiglie italiane era di quasi 9.000 miliardi (8.619 miliardi di euro), corrispondenti a poco più di 140.000 euro pro capite e 350.000 euro in media per famiglia. Le attività reali rappresentavano il 62,8 per cento del totale delle attività, le attività finanziarie il 37,2 per cento.

Al di là della distribuzione e della concentrazione della ricchezza, in Italia emerge il fatto che le famiglie hanno un’elevata ricchezza netta, equivalente nel 2010 a 8 volte il reddito disponibile. Questo dato se viene confrontato con l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone, il 5,5 del Canada e il 5,3 degli Stati Uniti. A questa ricchezza si aggiunge un basso indebitamento, che equivale al 71 per cento del reddito disponibile (in Francia e in Germania è di circa il 100%, negli Stati Uniti e in Giappone del 125%, in Canada del 150% e nel Regno Unito del 165%). Totalmente in rosso risulta il 2,8% delle famiglie italiane, per le quali le difficoltà finanziarie non sono compensate nemmeno dal possesso dell’abitazione.

La ricchezza disponibile, quindi, è elevata, ma ciò non può tranquillizzarci, perché la sua distribuzione è totalmente diseguale e caratterizzata da una profonda sperequazione. E il futuro purtroppo non promette niente di buono da questo punto di vista.

Il resto della minuziosa analisi che analizza anche le colpe del Fisco, la diminuzione delle buste paga e delle pensioni di anzianità, la crisi del lavoro e quant’altro è tutto contenuto in questo interessante volume di stretta attualità, che rappresenta un utile viatico per comprendere le origini e le cause dei mali che affliggono il lavoro e le pensioni in Italia, ma soprattutto il futuro di tutti noi, e un tentativo di risolverle cambiando le regole del gioco imposte dal sistema, mettendo di nuovo al centro della società e della Nazione: il lavoro, in tutte le sue espressioni per valorizzarlo di più nella sua interezza, coinvolgendo nel progetto imprese e maestranze.

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