" In politica anche il linguaggio è fraudolento" di Andrea Sartori

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http://www.linkiesta.it/sites/default/files/imagecache/immagine_620_fixed/uploads/articolo/immagine-singola/Chartres_lancettes_sud_grand.jpgIn un articolo apparso su il Fatto Quotidiano il 25 agosto 2011 – Chi parla male, pensa male – Maurizio Viroli, docente di Teoria Politica all’Università di Princeton, deplora, nel nostro Paese, lo scadimento del linguaggio ordinario, regredito a una sequenza di volgarità e di grugniti intervallati dall’invio di qualche sms. Un linguaggio quotidiano incapace di distinguere, ad esempio, concetti ben distanti tra loro come quelli di libertà e servitù, impedisce ai cittadini di prendere parte consapevolmente alle deliberazioni pubbliche, e li espone al rischio di essere dominati da qualsiasi demagogo, anche da uno, scrive Viroli, «di mezza tacca e con i tacchi».

La filosofa Paola Cantù, con il libro "E qui casca l’asino. Errori di ragionamento nel dibattito pubblico" (Bollati Boringhieri, 2011), sposta l’attenzione direttamente sul dibattito pubblico, giornalistico e politico – senza il quale, come scriveva Jürgen Habermas già nel 1962 in Storia e critica dell’opinione pubblica (in italiano per Laterza), non si crea una sfera comune e dialettica di idee, una sfera avente tra l’altro diritto di voto. Se il linguaggio ordinario versa in gravi condizioni, i ragionamenti del dibattito pubblico non godono in fondo d’una salute migliore, e il libro della Cantù, pur non sposando una posizione iper-normativista, si prefigge di individuarne le fallacie, tenendo come filo conduttore, oltre alla logica aristotelica, la teoria dell’argomentazione di Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca ("Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica", Einaudi, 1966 – edizione originale 1958) e di Stephen Toulmin ("Gli usi dell’argomentazione", Rosenberg&Sellier, 1975 – anch’esso originariamente apparso nel 1958).

In questo modo Cantù – ricercatrice presso l’Université de Provence di Marsiglia, altra conferma al detto nemo propheta in patria – sconfessa un pregiudizio circa la cosiddetta nuova retorica. Quest’ultima, nella misura in cui mette capo a una teoria dell’argomentazione, non entra affatto in rotta di collisione con la logica, sicché è ormai errato ritenere che logica e retorica siano in linea di principio impermeabili l’una all’altra, ovvero polarizzate da un lato su verità necessarie, dall’altro su stratagemmi contingenti di persuasione.

Quel che emerge e negativo da questo libro incentrato sulla fenomenologia delle fallacie logico-argomentative del linguaggio pubblico, è dunque – come nota Franca D’Agostini nella Prefazione – una fisionomia molto umana del concetto di regola, qui ben lontano dal rigido normativismo kantiano. Contrariamente a ciò che il senso comune ritiene, o ha lungamente ritenuto, specialmente in Italia, le regole non esistono per impedire determinati comportamenti, per limitare la libertà degli individui, ma per agevolare gli uni e l’altra.

Ludwig Wittgenstein, d’altra parte, lo aveva chiaro nelle "Ricerche filosofiche" (apparse per la prima volta postume nel 1953, e disponibili in italiano per Einaudi). Wittgenstein sosteneva che seguire una regola è un’abitudine, una prassi (§§ 199 e 202 delle Ricerche), un uso che ci consente di fare delle cose, di avere certi comportamenti, di partecipare ai più svariati giochi linguistici all’interno di una forma di vita. Nella metafora di Franca D’Agostini: le regole sono delle scale, più o meno solide, che ci servono per andare da qualche parte, non per restare fermi. Esse, inoltre, sono context-sensitive, nel senso che i terreni su cui le scale poggiano possono essere a loro volta più o meno affidabili. Per quanto fragili, tuttavia, le regole sono vincolanti e non aggirabili, esattamente come dovrebbero essere le istituzioni.

D’altro canto, nella misura in cui sono fallibili, le regole del ragionamento pubblico richiedono che gli individui vi si rapportino riflessivamente e criticamente, esibendo delle buone ragioni a loro sostegno o detrimento, proprio come accade nelle democrazie quando si discute dei più differenti temi.

Cantù non risparmia nessuno dalla sua analisi delle fallacie argomentative: dal discorso di Marcello Pera contro il relativismo – culturale o morale? Ecco una fallacia di ambiguità –, al volume "Imposture intellettuali" (Garzanti, 1999) di Alan Sokal e Jean Bricmont, che fin dal linguaggio pregiudizievole del titolo denuncia una sorta di caccia alle streghe a danno di chi rappresenta il suo obiettivo critico, ovvero i pensatori post-moderni. E poi, tra gli altri: la diagnosi pre-impianto e la ricerca sulle staminali nelle riflessioni di Habermas; i programmi elettorali di Berlusconi e Prodi; le differenti comicità di Grillo e Crozza; lo stereotipo sociale dei rom tra logica e analisi del contesto nel giornalismo di Ronchey, Mion e Lerner; le contestazioni a Schifani nel giornalismo di Travaglio e Battista; il killeraggio politico e la fabbrica del fango secondo Saviano, D’Avanzo e Sallusti…

Resterebbe una domanda – o meglio, la richiesta di un supplemento di prova – da rivolgere idealmente all’autrice: il capitolo sull’Unione di Prodi è intitolato «Volemose bene». L’enciclopedia elettorale di Romano Prodi, e tuttavia dei termini utilizzati nel titolo non v’è traccia nell’analisi degli argomenti. Cantù utilizza allora a fini retorici un linguaggio pregiudizievole, per orientare la comprensione del suo testo? Non sarebbe lecito restituirle l’onere della prova e proporle di supportare la tesi che da quel linguaggio traspare?

Paola Cantù, "E qui casca l’asino. Errori di ragionamento nel dibattito pubblico", Prefazione di Franca D’Agostini, Bollati Boringhieri, Torino 2011 – 177 pp., 15 euro.

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