L’arma politica del debito - di Fabrizio Fiorini

Pubblicato il da borsaforextradingfinanza

Sono molti i luoghi comuni e i solidi paradigmi da dover quotidianamente sfatare circa la crisi del debito pubblico. Su molti di essi non occorre soffermarsi più di tanto, è argomento dibattuto, su queste pagine come altrove, da anni: ad esempio, quello che riguarda la sua solvibilità, data per possibile e realizzabile dalla dottrina escatologico-economicista che ci propina la favoletta del rientro dal debito quale regno della salvezza terrena da conseguirsi tramite il “golgota” del sacrificio, delle privazioni, dell’obbedienza, della povertà. Oppure quello che cerca di convincerci della natura economica del problema, occultando la sua reale essenza giuridico-politica scaturita dalla legislazione inerente i meccanismi dell’emissione monetaria a debito di cui sono monopoliste le banche centrali.
Altri miti da infrangere sono quelli della “parsimonia” necessaria allo smaltimento di questo debito, dello slancio moralizzatrice che – tagliando qualcuna delle sontuose voci di spesa di una classe politica corrotta e “bizantina” – dovrebbe affrancarci da una situazione debitoria che (in barba ai moralisti della prima e dell’ultima ora) continua invece inesorabilmente ad aggravarsi. O ancora, altra fandonia sempre in agguato, quella del banchiere che accumula ricchezza come un personaggio disneyan-hollywoodiano che si fa il bagno nel denaro contante, che colleziona gemelli in madreperla, rubinetteria in oro, protesi dentarie di diamante.
Dormite pure sonni tranquilli: la cricca bancaria, i nani di Zurigo, le sanguisughe di Bruxelles, campano egregiamente in ogni sorta di agio anche senza la nostra Tasi, senza il nostro Imu, senza la nostra addizionale regionale all’Irpef. Il sistema fiscale vessatorio a cui siamo costretti per poter far fronte al debito, i sacrifici del “ce lo chiede l’Europa”, non sono un meccanismo di accumulo di ricchezze: sono uno strumento di controllo politico. E’ la “schiavitù del debito”, la possibilità, da parte di un potere sovranazionale, di dettare l’agenda politica di intere nazioni e di condizionare e traviare dalle fondamenta l’esistenza di interi popoli scavalcando a piè pari, come fossero inutili e fastidiosi orpelli, i sistemi legislativi anche solo formalmente legittimati dalla sovranità popolare. Quei denari, sic et simpliciter, non esistono: sono mere scritture contabili che hanno più forza di governi e parlamenti.
Ne sono testimonianza le dinamiche delle ultime ore che vedono come protagonisti i poteri forti della “trojka” e i valvassori e valvassini dei rappresentanti degli “Stati” europei che dai primi si vedono talvolta concessi, con la stessa magnanimità dello strozzino che conoscendo l’insolvibilità del debitore ogni tanto allenta la morsa attorno al collo per mantenerlo vivo e più sottomesso che prima, alcune concessioni “di bilancio”.
A farsi portavoce del potere targato Ue è stata Frau Merkel, la quale ha lasciato intendere un’apertura a una sorta di “flessibilità” del Patto europeo di stabilità, dei limiti cioè – e del poderoso regime sanzionatorio – che gli Stati membri devono porre alla crescita del proprio debito del proprio deficit, nonché della velocità con cui questi debbano colmare le mancanze che necessariamente si verificheranno e che storicamente si sono puntualmente verificate. Una “flessibilità” che tenga conto dei “cicli negativi” e che contempli la possibilità di procrastinare le scadenze delle rate “cravattare” in cambio – si badi – di “investimenti per la riforme strutturali”.
Fanno naturalmente da eco alle giugulatorie europeiste di Berlino le pronte dichiarazioni del governo italiano che, in un documento rispettosamente inoltrato a sua eccellenza il presidente del Consiglio europeo, Grande Ufficiale della Legion d’Onore e Gran Cordone dell’Ordine di Leopoldo Herman Van Rompuy, ha auspicato un mutamento dell’agenda economica europea in cambio – si badi ancora – delle “riforme strutturali, principale motore della crescita”.
L’eurocrate, da parte sua, ha avuto gioco facile ad assecondare le lagnanze dei sudditi, vaticinando riforme per la “competitività e il lavoro” e una politica sull’immigrazione “basata sui principi della solidarietà”. Insomma, allenteranno un tantino il cappio del debito, e metteranno il taglio dei diritti sociali, una politica scellerata e ultra-liberista del lavoro e un incremento esponenziale dell’immigrazione e del mercato degli schiavi nel loro carniere che già gronda del sangue di milioni di cittadini.
Il debito pubblico è solo l’arma puntata alla testa del continente. Ma chi imbraccia quell’arma ha un preciso disegno politico, mirato all’uccisione delle nazioni, allo sradicamento dell’identità e del lavoro nazionali, alla morte autoprovocata della nostra patria europea.
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